La psiche umana deve incarnarsi, scoprire il corpo che abita per dare origine all’interezza dell’essere umano: non è sufficiente avere un corpo, dobbiamo divenirlo. Per abitare la corporeità dobbiamo associare alla carne un significato intessuto di memorie e di affetti (1) in una sorta di ricreazione che integri i piani psichico, affettivo e somatico.
La psiche emergente dal corpo vi si congiungerà nominando arti e organi attraverso le parole, o dando loro forma attraverso la rappresentazione. Quando la mamma dice: “nasino!” toccando con il dito la punta del naso del bambino ancora molto piccolo, o “gambetta” scorrendo la mano sulla coscia, sta intessendo proprio questo dialogo tra il corpo ignaro e le parole. Così come fa il bambino quando lascia la traccia colorata del palmo della propria manina su un foglio.
Se questo vale per il corpo in generale, per i genitali il discorso è ulteriormente differenziabile.
In questo testo approfondiremo la rappresentazione degli organi genitali femminili agli albori della storia dell’arte occidentale. E inizieremo a perlustrare i motivi della loro progressiva alienazione.
Il corpo oltre ad essere una costruzione privata nel senso che abbiamo introdotto, è anche un luogo pubblico le cui parti sono depositarie, in ogni cultura in modo differente, di significati simbolici.
L’iconografia del grembo nella cultura occidentale ad ascoltare due maestri dell’estetica – Argan e Clark – inizia poco tempo prima dei grandi scultori della Grecia classica: Mirone, Fidia e Prassitele.
In realtà troviamo rappresentazioni di nudità femminile almeno a partire da trentamila anni prima. Ebbene? Non vengono presi in considerazione. Oggi godiamo dell’onda lunga generata dalle studiose negli anni ’70 e ’80, archeologhe, filosofe, antropologhe, sociologhe che iniziarono a spostare indietro l’asticella del tempo e a illuminarci sui reperti – fonti materiali – e sui simboli – fonti dunque immateriali – che insieme ricostruiscono un discorso ben differente riguardo alla nudità.
Se entriamo nella galleria plurimillenaria delle vulve rappresentate, troveremo una storia del grembo che ogni bambina, ragazza e donna dovrebbe conoscere. Un’evoluzione da simbolo gioioso e vitale in simbolo di vergogna e mortificazione.
Ma sostiamo ancora un attimo nel solco della tradizione occidentale ‘classica’, per individuare il punto di rottura, la denuncia della visione inibitoria della nudità femminile in epoca contemporanea. Troveremo il dirompente Pubertà di Edvard Munch (1895), che registra la condizione di una ragazzina pubere che rassegnata e angosciata nasconde il proprio sesso.
Da quando inizia la rappresentazione della vergogna per il proprio sesso?
Il filosofo Derrida può esserci d’aiuto prendendola alla lontana, quando in L’animale che dunque sono (2006) inizia a contattare la vergogna per la propria nudità a partire dallo sguardo del gatto che una mattina scopre lo sta osservando nudo. Egli sostiene che l’uomo è un animale ancora incompleto, addirittura contraddittorio, perché «mancante di sé»: nella propria nudità l’uomo si avverte come «mancante a se stesso». Ma cosa manca all’uomo? Viene al mondo nudo e in quanto nudo dovrebbe sentirsi ‘intero’, invece si percepisce mancante e si copre. Quello che sente mancare nella propria nudità che dovrebbe essere la sua condizione ‘naturale’ cioè sufficiente, è l’Io. Quella parte di noi che infatti non nasce con il nostro Sé animale, ma che si costituirà nei primi anni di vita. L’Io è l’abito, senza il quale l’uomo si sente nudo. A stare con il suo solo Sé, si sente nudo e quindi si copre vergognandosi di una colpa che sente originaria. Una colpa evoluzionistica.
Le pudendae (ciò di cui ci si deve vergognare) iniziano a essere raffigurate con la Venus Pudica (II sec. a. C.), con l’Afrodite Cnidia (Prassitele, 360 a. C.) e con la Venere di Milo (cerchia di Lisippo, 100 a. C.) per citare alcune tra le sculture più note (Figg. 1-2).
Quest’iconografia greco classica confluirà poi in quella informata dalla teologia cristiana (Cacciata dal Paradiso, Masaccio, Cappella Brancacci 1424-1428) e in quella rinascimentale (Nascita di Venere, Botticelli, Uffizi, 1482-1485) (2).
La grande statuaria greco classica nasconde quello che per millenni era stato rappresentato come fulcro generatore del senso del sacro: la vulva. Così sono infatti state interpretate le svariate incisioni rupestri preistoriche, pars pro toto dell’immenso mistero della creazione. Per citare alcuni siti europei in cui si trovano questi segni archetipici: Bedeilhac, 40.000 a. C. nell’Ariège francese; Abri Cellier, 31.000 a. C. e La Ferrassie, 26.000 a. C., in Dordogna; la grotta tedesca di Oelknitz, 20.000 a. C. ca, in Turingia, (Figg. 3, 4).
Perché nascondere e dannare quello che per millenni è stato uno dei vertici simbolici dell’umanità? Oggi potremmo sentirci immuni dal rischio di censurare la rappresentazione dei genitali, vista la presenza dilagante della pornografia, salvo poi scoprire che tra i due estremi del coprire e dell’esibire, il secondo può evitare ancor più il contatto con Sé, e lo agisce nel suo contrario, l’esibizione appunto. Si può benissimo esibire senza presentificare alcunché, senza essere consapevoli di essere quello che esibisco, senza essere entrati in contatto con tutte le memorie e i sentimenti collegati a quella parte di noi.
Infatti la questione che mi sembra importante focalizzare è quella della presentificazione del femminile in ogni donna. Mostrare o indicare i genitali come raffigurato nell’arte antica si rivela il punto di arrivo di un percorso di conoscenza delle regole di funzionamento della natura, significa attingere alla regola della creazione e a quanto a essa connesso, riconoscerla in se stesse e comunicarla al mondo.
In origine e per migliaia di anni erano segni, grafiti su roccia in cui il triangolo pubico e la vulva erano isolati e privi di un corpo, quasi che il corpo fosse la grotta-terra madre stessa. Poi questi simboli scesero dalla parete per allocarsi in sculture di pochi centimetri, le cosiddette Veneri Paleolitiche, anche chiamate Grandi Madri, come nella Venere di Monpazier, nella Dordogna francese, risalente al paleolitico superiore. Ma, come è stato evidenziato da Marija Gimbutas, l’accento sulla maternità può essere fuorviante laddove ci stiamo interrogando sulla femminilità in generale.
Davanti ai 6 centimetri della figura di Fels sentiremo forse come il termine Venere sia più utile perché per contrasto ci costringe a sentire quanto Venere non è, esalta il ‘non grazioso’ della potente scultura lontana dallo stereotipo patriarcale, istituito successivamente, di un femminile seducente, fragile e dipendente.
Come vediamo nei successivi sigilli neolitici anatolici (6500 a. C.) o del minoico medio (1500 a. C.) dove si ritrovano vulve a forma di seme o viceversa. Il seme contiene in sé la pianta, la vulva come soglia è contigua a ciò che protegge: il luogo del mistero della creazione. Ed è così che potremmo interpretare le precedenti vulve delle sculture paleolitiche, segni che stanno per la più universale generatività possibile, quella che ci apparenta a piante e animali.
Si rappresenta la soglia non potendo rappresentare l’interno. La forza simbolica della vulva nei millenni risiede nel suo essere l’ultimo luogo rappresentabile prima del mistero della creazione-generazione contenuto nell’utero. Valenza simbolica che forse non a caso ritroviamo in Maria ianua coeli, una porta vivente, concretezza rappresentabile che è al contempo simbolo del mistero della sacra generazione.
Le grotte più in generale erano templi naturali, simbolicamente utero della grande Madre Terra.
Così sono interpretati quelli dedicati a Cibele (3), profonde fenditure nella roccia che davano accesso a grotte sotterranee o l’altare del tempio nel monte Shibao, XIII sec. d. C. nello Yunnan cinese; e ancora il Tempio di Yogini, Bheragat, Madhya Pradesh (1100 d. C.).
Altri templi megalitici nel Kerala indiano alludono a un passaggio da attraversare per un regressum ad uterum fusionale come nella sequenza del film Parla con lei (2002) di Almodovar o sapienziale, come in The dirty corner di A. Kapoor, installazione inaugurata a Milano (2012). In quest’opera lunga sessanta metri, nel mezzo del condotto-vagina cosmica si può vivere l’esperienza sensoriale della ‘perdita di controllo’. Quando buio e silenzio diventano assoluti permettono, nel solco dei più universali riti misterici dell’antichità, l’esperienza ambivalente di perdersi e trovarsi al contempo.
Avvicinandosi all’epoca storica nell’età del bronzo (3500-1200 a. C.) compare un corpo ‘attorno alla vulva’. E con esso un volto e dunque un’identità. Infatti le dee paleolitiche non avevano un volto connotato, esse rappresentavano un principio, non una personalità. In Egitto, Palestina, Israele e nel più ampio bacino mediterraneo compaiono ora pietre, terrecotte, lamine in bronzo ed altri metalli che rappresentano figure femminili sessuate con il semplice segno ‘a taglio’ della vulva e un volto.
In età ellenistica (323-31 a. C.) nonostante il trattamento pudico dell’età classica queste figurine sessuate permangono, ma in miniatura, nelle più svariate forme dal monile, alla piccola terracotta portatile. Sono le cosiddette divinità esibizionistiche, figure femminili che allargando le gambe si toccano la vulva o a volte aprono le grandi labbra a indicare un punto o una direzione per lo sguardo (Fig. 6). Altrove le troviamo in groppa a grossi felini o a cinghiali e scrofe, ricordando dee silvestri.
C’è un relitto testuale che in particolar modo ci permette di far luce sulla popolarità di queste figurine che così non risultano più isolate, ma appartenenti a un contesto culturale più ampio. Si tratta dell’Inno omerico a Demetra (VII a. C.) nella duplice versione di Clemente Alessandrino e del Papiro di Ossirinco. Ci parlano di Baubò (Fig. 7). Una donna o semidea che agita i fianchi, muove il bacino, anima il perineo… in una parola vivifica l’epicentro del corpo vitale, proprio quello che dall’avvento delle teologie monoteiste nel mediterraneo verrà pregiudicato, condannato e di conseguenza immobilizzato o murato vivo. Con le debite conseguenze cliniche, patologiche e psicopatologiche. Grazie all’azione vivificante solo Baubò riesce a far uscire Demetra dallo stato di prostrazione per la perdita della figlia Persefone e a coinvolgerla in una fragorosa risata. Già dall’antichità è evidente dunque il potere salutare di ‘abitare’ le pelvi fino a farne motore non solo di salute psicofisica, ma addirittura luogo di trasformazione spirituale come nel caso della ‘crescita’ psichica di Demetra di cui beneficerà tutta l’umanità, altrimenti ridotta in carestia per il suo lutto ostinato e interminabile.
Un’altra dea danzante è Eurinome, creatrice del cosmo nel discusso mito pelasgico ‘ricreato’ da Robert Graves. Altre dee danzanti si ritrovano nella serie delle figurine in terracotta del panteon egiziano predinastico, per non parlare della precedente arte preistorica africana.
Concludendo la rassegna dell’iconografia del grembo pre-classica, è utile incontrare l’anasyrma.
Questo gesto rituale e simbolico si trova attestato in Grecia dal V sec. a. C., ma è ereditato a sua volta da precedenti tradizioni mediorientali (4) e confluirà nelle successiva tradizione statuaria romana anche nella figura di Priapo, come quello del Museo Civico degli Eremitani a Padova. Nelle sculture la protagonista è nuda, la veste viene alzata (ana, su – sirma, gonna) e in questa sospensione c’è spazio per l’epifania (Fig. 8). E’ la medesima presentificazione che abbiamo visto avere radici preistoriche, è questo il tipo di visione cui abbiamo accesso, uno spazio paradossale in cui alto e basso, sacro e profano, corpo e anima, esoterico e manifesto, sessuale e sublime si congiungono.
Con l’avvento della misoginia cristiana altomedievale l’archetipo dell’anasyrma, riparò ai margini estremi dell’Europa, in Irlanda dove proliferò nelle Sheela Na Gig (5) (Fig. 9) dei capitelli delle chiese o nei muri di torri e castelli, protettissima icona di un femminile potente che protegge e veglia sul suo popolo.
Nelle successive epoche misogine questo gesto venne rivolto nel suo contrario laddove da moto di conoscenza sapienziale o di sacra protezione fu letto come atto offensivo che mette in fuga persino il diavolo e proprio al diavolo furono assimilate dalla Chiesa le Sheela in Irlanda per scoraggiarne il culto.
Nel contemporaneo questi simboli sono lungi dall’essere scomparsi, li ritroviamo nel centro di Tokio e Kyoto, in locali frequentati da uomini. Qui ragazze chiamate tokudashi si accovacciano su una passerella ed aprendo le labbra della vulva, si espongono allo sguardo maschile. Una sorta di ‘pornografia sublime’ (Baudrillard, 1979) in cui vige il divieto di toccare e in cui si commentano con estrema serietà le diverse vulve esibite.
O come ritroviamo Baubò reinterpretata da Magritte nel 1934 sotto il perturbante ed enigmatico titolo Lo stupro (The Menil Collection, Houston) o da Fornasetti in un bellissimo piatto illustrato degli anni ’70.
Il web consente oggi un accesso sempre più vasto a questa iconografia, impensabile anche solo qualche anno fa. Se questo testimonia un risveglio culturale verso il simbolo della sacra vulva, avvicinarne la dimensione interiore e meditativa è un passo squisitamente personale.
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Questo articolo è una rielaborazione di “La vulva: da sacra a pudenda“, un mio testo pubblicato in “Pelviperineologia. Rivista multidisciplinare del pavimento pelvico”, Vol. 38 – N. 2, giugno 2019.
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